Karlovy Vary, Repubblica Ceca. In questa suggestiva cittadina incuneata in una vallata boschiva di un verde smeraldo, dal 3 all’11 luglio si è svolto uno dei festival cinematografici più interessanti dell’Europa Orientale e non solo.
Attraversata da un canale che lambisce dolcemente il suo corpo vivo di Hotel e Spa, di ristoranti, bar e pasticcerie con i loro dehor e le terrazze colmi di tavolini; un corpo vivo di chioschi di cibo allestiti per l’occasione e dedicati al famelico popolo dei cinefili e di chioschetti più decorosi, bianchi come il latte, elegantemente inseriti nel contesto architettonico, riservati invece ai cacciatori di souvenir; un corpo vivo di vetrine zeppe di porcellane Thun e cristalli di Boemia o semplicemente a disposizione degli amanti dello shopping compulsivo, come ovunque.
Parallelo al canale, scorre il fiume umano dei turisti, che non manca di ristorarsi alle numerose fontanelle dalle quali zampilla la tipica acqua termale di qui, caldissima e benefica e quello dei professionisti del cinema accreditati, segnati dall’immancabile collana di nastro arancione, alla quale è affidato il badge del festival, che danza gioiosamente a destra e a sinistra e rimbalza orgogliosamente sullo stomaco ad ogni passo. Anche questo è uno scorrere placido e tranquillo, proprio come quello del canale, ma che restituisce un’atmosfera frizzante, una sensazione allo stesso tempo di protagonismo e condivisione. Ovunque i visi appaiono segnati da una leggiadra serenità, certo, ma anche da una voglia seminale di partecipare, di conoscere, di confrontarsi.
Giunto alla sua 50a edizione – non senza traversie storiche e politiche di rilievo – il festival di Karlovy Vary si offre quale osservatorio privilegiato di talenti, incubatore di idee e proposte da e su un cinema fresco e tendenzialmente giovane (tante le opere prime di rilievo) e che non ha deluso le aspettative, tenendo appunto fede alla sua vocazione verso un cinema indipendente e d’autore, fatto di storie minime, spesso marginali e molto spesso a tinte forti e piuttosto cupe: una rappresentazione della realtà capace di insinuarsi negli stati d’animo dello spettatore (come solo il cinema sa fare) e la cui eco resta a lungo, anche molto dopo la visione. Frammenti di una realissima finzione, di personaggi talvolta geograficamente distanti, ma sempre umanamente vicinissimi, immagini che per nove giorni si sono rincorse sui tanti schermi del festival, componendo una proposta artisticamente seria, puntellata da qualche concessione più glamour e pop, da Richard Gere, testimonial hollywoodiano, ad Harvey Keitel (per il film “Youth – La giovinezza” del nostro Paolo Sorrentino), alla Master Class di oltre due ore, tenuta da George A. Romero, di fronte a giovanissimi entusiasti. Senza ovviamente rinunciare all’immancabile e onnipresente “red carpet”, a guardia del quale spiccano due figure esili e slanciate, inarcate sotto il peso di un globo di cristallo, che come due angeli custodi, sono anche il simbolo più significativo del festival, il Crystal Globe. Il premio che non caratterizza solo la gara, ma che attraverso i deliziosi cortometraggi in bianco e nero, che fanno da sigla alle proiezioni, segna anche lo spirito goliardico e ironico della manifestazione. Cogliere le tendenze di un cinema che lascia poco spazio al compromesso, che restituisce una realtà troppo spesso drammatica, che attraverso un sguardo entomologico scava le viscere di personaggi disadattati o in difficoltà, non significa per forza rinunciare alla leggerezza. Andate a guardarli sul canale Youtube del festival queste brevi pillole di leggerezza, per capire di cosa parlo: troverete Danny DeVito, Hellen Mirren, Jude Low, John Malkovich, Mel Gibson e Harvey Keitel in un gustoso siparietto, alle prese con l’ingombrante Crystal Globe e con le sue infinite e inaspettate possibilità di utilizzo.
Impossibile ovviamente restituire la varietà di proposte cinematografiche di un festival come Karlovy Vary, le cui cifre offrono chiaramente il segno della sua abbondanza: 12.857 partecipanti accreditati, tra cui 10.623 Festival Pass, 547 cineasti, 1.017 film industry e 670 giornalisti e critici; 135.105 biglietti venduti; 488 proiezioni di cui 199 presentate da registi e/o interpreti; 233 film presentati, di cui 35 anteprime mondiali, 26 prime presentazioni a un festival internazionale e 123 anteprime europee. Sono stati inoltre presentati 25 cortometraggi e 40 documentari. Non resta che concentrarsi su qualche titolo particolarmente emblematico, che sia in grado di restituire quella tendenza di cui dicevamo e che rappresenta quasi una specie di nouvelle vague del cinema d’autore indipendente e che condivide una precisa poetica ed estetica.
Innanzitutto il film che ha trionfato nella selezione ufficiale, quel “Bob and the Trees”, opera prima di Diego Ongaro, già presentato nella selezione ufficiale al Sundance Film Festival. Un prova attoriale suprema da parte del non-professionista Bob Tarasuk, che nel film interpreta se stesso, un allevatore di bestiame e taglialegna, alle prese con la dura quotidianità di una zona boschiva del profondo Massachusetts occidentale, appassionato di rap e di golf e che ama tantissimo la propria famiglia. Le basi del film sono state poste in un cortometraggio di Ongaro, che ha avuto un grande successo in numerosi festival internazionali. Il personaggio reale Bob e la sua fattoria reale, fanno parlare di un taglio documentaristico del film e di cinema verità, ma qui siamo a tutti gli effetti di fronte a un’opera di finzione, a una storia. Ongaro è stato bravissimo a inserire gli elementi di verità in una sceneggiatura credibile e soprattutto molto bravo a dirigere gli attori non professionisti e l’unica vera attrice, Polly MacIntyre, che interpreta la moglie di Bob. Ne è venuto fuori un piccolo gioiello, fatto di speranza, di dura lotta quotidiana, di ostacoli e di rabbia, ma ciò che inconsapevolmente attanaglia lo spettatore sono soprattutto i dettagli, quelli sì verissimi: la neve bianchissima e fredda che il figlio di Bob, Matt, mentre chiacchiera con il padre si infila in bocca, il vapore nei respiri e intorno al corpo degli animali, il suono della sega elettrica e degli alberi che cadono. Anche le caratteristiche produttive e l’agilità del sistema di ripresa, fanno di questo film un “case study” assolutamente esemplare.
Ma al di là dei titoli che si sono aggiudicati un premio o una menzione, come le menzioni speciali all’italiano “Antonia”, di Ferdinando Cito Filomarino (la breve vita della poetessa Antonia Pozzi) e al romeno “The magic mountain” (che con una tecnica molto particolare ci fa conoscere la vita dell’alpinista Adam J. Winkler, che ha combattuto insieme ai mujaheddin, contro i sovietici, nel 1980) di Anca Damian, oppure nella sezione “East to West” il bel film ungherese “The Wednesday Child” di Lili Horváth (che narra la vicenda di Maja, nove anni, abbandonata dalla madre, messa in orfanotrofio e che dieci anni dopo, torna nello stesso istituto per far visita al proprio figlio di quattro anni e lotta eroicamente per l’affidamento), o ancora “The World is Mine” opera prima del regista Nicolae Constantin Tanase (che propone il tema di quegli adolescenti che percepiscono la propria identità esclusivamente attraverso il denaro e un successo inevitabilmente effimero), quello che salta agli occhi è una specie di filo conduttore. Si potrebbero allora citare anche altri titoli, che non si sono aggiudicati un premio, né una menzione e che pure egualmente segnano, insieme agli altri, un percorso lucidissimo del cinema contemporaneo indipendente. Potremmo ad esempio citare “Chrieg” di Simon Jaquemet (già al Festival di San Sebastian), che narra la vicenda quasi disturbante del quindicenne Matteo, per certi versi disadattato e che si culla in un torpore dal quale non riesce a riemergere. Rinchiuso in un mondo di adulti per lui incomprensibile, praticamente muto di fronte a un padre e una madre con i quali non riesce a comunicare in nessun modo, vorrebbe fuggire, ma non sembra in alcun modo averne la forza. Il suo comportamento, le sue azioni quotidiane, l’uso di droghe, il sesso, il brevissimo e velleitario tentativo di fuga con il piccolo fratellino (al quale rischia involontariamente di fare del male) non sembrano affatto avere per lui un valore morale, ma sembrano piuttosto essere semplicemente l’esito della sua totale incapacità relazionale, della sua incapacità di stare al mondo, di stare in quella famiglia. La punizione decisa dal padre di Matteo per l’ennesima azione non conforme alle aspettative di quel mondo, che detta regole di comportamento omologanti, è radicale e inumana. Trascorrere i quattro mesi successivi, in una fattoria sperduta, incuneata tra le Alpi svizzere, una vera e propria prigione, abitata da altri ragazzi come Matteo e da una specie di tutore che non si rivelerà affatto tale. Eppure nonostante l’impatto iniziale, gli atti di brutale nonnismo dei suoi compagni, qui Matteo si libera e in qualche modo comunica. Attraverso scorribande notturne in città, furti e devastazioni varie egli afferma finalmente se stesso come individuo. Il rapporto con questi ragazzi rappresenta per Matteo una sorta di redenzione immorale, la scoperta della possibilità di relazionarsi, di entrare in comunicazione con un altro individuo. Quelli di Jaquemet, anche qui quasi tutti attori non professionisti e altrettanto sorprendenti, sono evidentemente ragazzi in guerra, colmi di rabbia, che protestano contro un mondo deciso da altri e nel quale non riescono proprio ad abitare. Devono evidentemente costruire il proprio, a rischio di distruggere, anche violentemente, quello vecchio. Oppure ritrovarsi in un altrove indipendente e autonomo.
E si potrebbe citare anche “Mediterranea”, di Jonas Carpignano (già selezionato per la Semaine de la critique allo scorso festival di Cannes). Anche questo un film che intreccia la storia di finzione con il taglio documentaristico e con la verità dei fatti. Racconta la storia – quasi vera – di Koudos che nel film interpreta il protagonista Ayiva. Anche qui, quindi, attori non professionisti che offrono una prova di fortissimo impatto emotivo. Anche questa una storia di sofferenze e di uomini imprigionati in un mondo che non vorrebbero abitare, ma nel quale sono costretti dalle avversità di una vita sulla quale non hanno alcun controllo.
L’utilizzo di attori non professionisti. Il taglio quasi documentaristico, pur nell’ambito della finzione, una regia entomologica, con la videocamera addosso ai protagonisti, quasi come a volerli eviscerare emozionalmente, incollata a un punto di vista, che ambisce a diventare quello dello spettatore. Una poetica dei “vinti”, pur lasciando balenare una speranza di riscatto. Una nouvelle vague, dunque, se esiste, ancora tutta da verificare e da indagare, ma che qui, nel contenitore-laboratorio di Karlovy Vary, è sembrata assolutamente plausibile.