Carmen Consoli. L’abitudine di tornare

Foto Carmen Consoli 1In agricoltura, per millenaria tradizione, si lascia un campo a riposo; questa tecnica si chiama maggese, il terreno si rigenera, ricarica. Il maggese di Carmen Consoli è durato cinque anni, tanti quanti quelli passati da  Elettra. Un lustro di maggese precisamente, ecco come ha scritto sul suo profilo Facebook annunciando il suo ritorno: “Cinque anni: un lustro, il lasso di tempo che – nell’Antica Roma – intercorreva tra un censimento e l’altro. Era un tempo per contarsi, per contare le ricchezze, per contare le strade percorse e quelle ancora da percorrere”. Durante l’estate scorsa la “cantantessa” è tornata a comporre canzoni, a registrarle, fino ad anticipare col singolo “L’abitudine di tornare” – che ha iniziato a girare per le radio a dicembre – l’uscita del nuovo omonimo album, comparso nei negozi il 20 gennaio 2015, su etichetta Universal.

Cos’ha fatto in questi anni Carmen? Prima di tutto è diventata mamma, poi si è data del tempo, per stare con sé, la famiglia e soprattutto per stare tra la gente, guardandosi intorno, riuscendo a raccogliere pensieri, urgenze, emozioni che incontrava negli altri; quindi il momento della scrittura ha avuto già alle spalle un terreno fertile, lo stesso messo  a maggese.

La cantautrice catanese oggi ha 40 anni e si sentono, più che altro si ascoltano, nelle dieci tracce di quello che a piena ragione può essere considerato come l’album della maturità.

Di base continua, in un solco di coerenza comune a pochi, la ricerca della parola, letteraria quanto basta, meno costruita di un tempo e più diretta, più musicale e meno fine a sé stessa. Carmen  racconta così l’Italia vista nei tiggì, ma soprattutto negli sguardi incrociati per strada, la condizione della donna, l’amore, tra  il nascondimento e la noia. Uno sguardo solo apparentemente impietoso e negativo sulla storia odierna, dico apparentemente, perché in ogni canzone è sempre presente il filo rosso della speranza, della primavera evocata in “E forse un giorno”.

 Dal punto di vista musicale, tutto scorre tra le sonorità classiche “alla Consoli”, tra una grande presenza acustica, con ritmica (chitarre, basso e batteria) in primo piano, elettronica mai invadente, il tutto morbido ed accogliente, mai sopra le righe, spesso a sottolineare i testi, dove regna l’ironia tutta siciliana di raccontare anche le tragedie, che somiglia ad un cinismo senza cattiveria, ma lucido. La cantantessa nel disco suona basso, chitarra acustica e percussioni; il resto della band è composta dai musicisti di sempre, perché – come appunto ama dire – le cose riescono meglio se si fanno con le persone cui vuoi bene, specie se si tratta della famiglia musicale allargata. In “Oceani deserti” al basso troviamo Max Gazzè, coautore, col fratello Francesco, del brano stesso. Le venature rock di melodie ed arrangiamenti ben si compensano con episodi più vari, come il tempo ternario, quasi un valzer moderno, di “Esercito silente”, la marcetta  ne “La notte più lunga” (che si scioglie nei violini del ritornello, in contrasto con la durezza delle parole) o la bossa nova del brano dedicato al figlio Carlo: “Questa piccola magia”, saudade etnea.

Passiamo all’analisi dei brani, uno per uno.cover

 L’abitudine di tornare. Singolo di lancio del disco, dove si racconta di un uomo indeciso tra la moglie e l’amante; il verso “sarai tu a decidere se vorrai” la dice lunga sul personaggio ritratto nella canzone.

Ottobre. Idealmente ambientata nell’Italia degli anni ’50, anche se oggi certe “differenze” non sono ancora viste con l’occhio della normalità, differenze che nella canzone sono rappresentate da due ragazze adolescenti che scoprono l’amore, un amore omosessuale difficile da tollerare all’epoca e anche oggi. Il verso più bello: “Il paradiso poteva anche attendere / fosse stato il prezzo della libertà”

Esercito silente. È la denuncia dell’omertà che è la base silenziosa del potere mafioso. In questa canzone è presente il verso più duro e vero del brano e credo del disco: “lo stato assai spiacente / che posa una ghirlanda / tricolore con su scritto assente”

Sintonia imperfetta. La noia di una vita in due senza novità, stimoli, quando i colori sfioriscono nel grigio, nel passare “da un divano all’altro”. È così che la protagonista pensa a quanto fosse sognante l’amore al tempo dei suoi nonni, evocato con la citazione di “Voglio vivere così”, brano del 1941, scritto da Giovanni D’Anzi e Tito Manlio ed interpretato da Ferruccio Tagliavini.

La signora del quinto piano. Si affronta qui il tema del femminicidio, ma anche della “distrazione” di chi ci dovrebbe difendere, da quella questura, i cui funzionari “continuano a dire / che non c’è alcuna ragione di avere paura”.

Oceani deserti.  Forse il brano più delicato del disco, un addio amaro, la fine di un amore che vorrebbe nutrirsi dell’entusiasmo degli inizi, “di un passato che non passa mai”.

E forse un giorno. Ancora l’attualità, la crisi economica che costringe una famiglia a dormire in un’auto; una madre che racconta la vergogna di dover dire ai figli di stringere i denti. Il verso più duro: “alla lotteria quest’anno in palio un buono per la spesa”, quello che apre alla speranza: “Ma la primavera tornerà nei nostri poveri cuori avviliti e ammalati e li guarirà”.

San Valentino. Una romantica ballata, una dichiarazione d’amore affidata al cosmo. 

La notte più lunga. La tragedia quotidiana degli sbarchi di clandestini dall’Africa, persone che troppo spesso non riescono a compiere il loro viaggio della speranza, spezzato a metà dal mare. Il tutto raccontato con sarcasmo e denuncia verso chi trasforma in spettacolo mediatico tutto questo dolore. Il contrasto voluto tra musica e testo ha l’effetto di un pugno dello stomaco.

Questa piccola magia. Tenerissima canzone dedicata al figlio, alla felicità che la sua nascita ha portato nella vita dell’autrice.

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