Una webserie non è banalmente la produzione di un prodotto di intrattenimento audiovisivo con caratteristiche casuali, destinato semplicemente alla fruizione attraverso il web, ma rappresenta un’esigenza creativa, produttiva e distributiva, che si incrocia fortemente con l’enorme sviluppo della tecnologia digitale, con la diffusione della connettività e dei nuovi dispositivi mobili e con le conseguenze culturali e sociali che questo sviluppo sta determinando (nell’ottica di una cultura partecipativa e di una convergenza multimediale dei mezzi di fruizione). La serialità, la breve durata (talvolta, ma non solo e non sempre), l’utilizzo dei device mobili e quello intrinseco dei social network, con la possibilità immediata di condivisione e commento, che offrono allo spettatore un ruolo più attivo rispetto alle modalità di fruizione tradizionale, sono solo alcune delle caratteristiche specifiche (e per nulla definitive) di una webserie. La scelta del web non è quindi una caratteristica accessoria, ma significa entrare fin da subito nei meccanismi della rete e sfruttarne le strategie, significa pensare e progettare un prodotto adeguato alla fruizione di uno specifico genere di utenti, con specifiche abitudini e esigenze. Senza contare che una serie web nativa si svincola dai criteri di selezione dei contenuti tipici dei principali broadcaster televisivi, all’insegna della più totale (o quasi) libertà, anche rispetto alla forma.
Se da una parte la serialità rimanda principalmente a un prodotto di “fiction”, basta osservare le categorie in concorso al Roma Web Fest, per constatare che quando si parla di web relativamente a un prodotto audiovisivo, i confini semantici sono ancora estremamente fluidi: Azione, Cartoon, Comedy/Sketch, Comedy/Story, Drama, Mokumentary, Web Show/Tutorial, Web Serie brandizzate, Science/Fantasy, Horror e un generico Altro (per non farsi mancare niente!).
Diciamo subito che l’Italia però, in questa nuova corsa, non tiene per ora il passo di altri Paesi. Negli Usa il mercato delle webserie è già ampiamente strutturato. Ogni anno vengono proposti un migliaio di titoli e la presenza delle Majors ha affiancato quella tipica, consolidata, delle produzioni indipendenti low budget. Nel mondo, non a caso, sono già moltissimi i festival dedicati specificamente alle webserie, a partire dal punto di riferimento internazionale, il Los Angeles Web Serie Festival, fino ad arrivare al nostrano Roma Web Fest, ma anche Marseille Web Fest, Melbourne Web Fest, Vancouver Web Fest, Hong Kong Web Fest. In Italia il salto di qualità produttivo non è avvenuto sia per evidenti resistenze culturali, sia per la ancora più evidente inadeguatezza delle infrastrutture (prima fra tutte la diffusione della banda larga). Però si registra – già da qualche anno – un incoraggiante fermento creativo e produttivo. Basti citare il caso di Freaks! (che ha visto il passaggio della serie da Youtube a Deejay Tv) o l’interessamento di importanti società di produzione come Magnolia Fiction (Kubrick, una storia porno), Publispei (Lib), nell’ambito del branded content (realizzazione su commissione per PosteMobile), Indigo Film (Una mamma imperfetta), progetto crossmediale in collaborazione con Rcs e Rai Fiction, scritto da Ivan Cotroneo e visibile sul sito del Corriere della Sera (successivamente trasmessa da Rai Due). D’altra parte la direttrice di RaiFiction, Eleonora Andreatta, ha più volte ribadito l’importanza delle webserie per il mercato italiano, annunciando la nascita di una linea di produzione Rai per il web.
Ma si può fare di più. L’alternativa è tra vivere pienamente una rivoluzione in atto da protagonisti, o accontentarsi di raccontarla dal di fuori, come farebbe però qualcuno che non ne ha ben compreso le dinamiche e non ne ha fatto veramente parte.
L’urgenza autoriale di molti giovani talenti italiani dimostra ampiamente che intendiamo vivere pienamente la rivoluzione e che, anzi, siamo perfettamente in grado di segnarne la rotta, seppure per ora la produzione di webserie, appaia ancora, per lo più, come il frutto orgoglioso del sacrificio personale e dell’impegno spesso probono di questi talenti e dei loro collaboratori. I titoli di cui si parla di più, oltre a quelli già citati, sono, in ordine sparso e casuale: Soma, Stuck, Next Stop, The Pills, Di come diventai Fantasma e Zombie, Geekerz, Lost in Google e molti altri, ma tutto sembra funzionare ancora come accade per la forma cortometraggio, dando adito quindi al solito equivoco: si utilizza la webserie come una palestra, un mezzo per ottenere visibilità e eventualmente fare poi il salto di qualità, entrando magari nel circuito autoriale mainstream. Ma così come il cortometraggio, con tutte le difficoltà produttive e soprattutto distributive, che lo accompagnano, dovrebbe invece essere concepito come una forma di espressione autonoma, con una propria specifica dignità, lo stesso vale per la webserialità. Altrimenti non si innesta nessun processo virtuoso generale, non si crea un sistema strutturato, non si fa networking e si rischia di disperdere inutilmente risorse ed energie.
È necessario interrogarsi continuamente e in prospettiva quindi sulle relazioni tra tecnologia e mercato, anche in funzione dell’audiovisivo e dell’intrattenimento, consci che le potenzialità del web si intersecano con nuove pratiche e forme di narrazione, con la condivisione delle informazioni in tempo reale, con l’universo delle app e dei social network. È questo il mondo attuale in cui viviamo, l’acqua in cui quotidianamente nuotiamo. Parafrasando David Foster Wallace, è fondamentale essere sempre consapevoli dell’acqua, saggiarne continuamente la temperatura, per non fare come quei due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, poi uno guarda l’altro e gli chiede “Cosa diavolo è l’acqua?”