Mi sono imbattuto per caso nel bel cortometraggio di fantascienza Pathos. Stavo navigando in internet alla ricerca di spunti, idee, stimoli e sono finito su un frame piuttosto straniante con sotto una promettente freccetta bianca a indicare “play”, che ha attratto irresistibilmente la mia attenzione. Ovviamente l’ho cliccata subito, senza pensarci troppo su e per i diciassette minuti successivi, sono stato proiettato in un “fantastico”, anzi “fantascientifico”, altrove! Poi il film è finito e io ho cominciato a rifletterci su. Per lavoro e per passione da un po’ rifletto sui nuovi media, sulle nuove opportunità crossmediali e transmediali della comunicazione artistica (soprattutto in relazione allo storytelling) e probabilmente mi aggiravo proprio tra questi oscuri meandri, quando ho avvistato questa strana immagine: un uomo piuttosto catatonico con un cordone ombelicale che gli spunta dalla testa completamente calva e da lì sparisce in alto oltre lo schermo. L’uomo è in piedi al centro di una stanza spoglia e quasi fatiscente, tiene il mento poggiato su un particolarissimo supporto ed è immerso in una luce al neon, piuttosto verdognola. La situazione a prima vista ammetto che mi fece pensare a qualcosa del genere “Torture Porn” (citando David Edelstein, critico del New York Magazine), tipo “Saw”, e ricordo che – prima del famoso clic sulla freccetta play – mi ritrovai a pensare: “Che cavolo succede qui, di quale genere di torture sarà mai oggetto questo malcapitato?”
Ed è così che ho conosciuto l’interessantissima realtà di questa società di video-produzioni che si chiama Illusion, con sede a Genova, fondata nel 2003 da Dennis Cabella e Marcello Ercole.
Dennis Cabella, co-ideatore, co-sceneggiatore, co-regista, co-produttore (e molto altro ancora) di Pathos, ha accettato di fare due chiacchiere con me.
Si potrebbe cominciare con la più classica delle domande. Come nasce l’idea di Pathos? Mi interessa in modo specifico il processo di scrittura, dall’idea allo script. Quanto sapevate del mondo là fuori, che non rientra strettamente nella narrazione vera e propria del cortometraggio. Perché l’impressione che se ne ha è di una grande consapevolezza.”
“Pathos nasce dal desiderio di rappresentare i nostri pensieri sulla vita e sulla società contemporanea. L’idea era quella di riflettere sulla realtà che ci circonda, mascherandola da futuro distante e distopico, per osservarla in modo freddo e distaccato e mostrar
ne i lati più oscuri. Nel 2003, anno in cui abbiamo cominciato ad abbozzare la sceneggiatura del film, si respirava un’atmosfera strana. L’11 settembre era ancora troppo vicino e l’insicurezza del mondo molto forte. Le teorie sul riscaldamento globale diventavano dogmi e da lì a poco si sarebbero trasformate in Oscar e premi Nobel. Il complotto cominciava a diventare una scienza e l’umanità si divideva irrimediabilmente in due gruppi contrapposti: quelli che accettano passivamente il sistema e per sopravvivere ne diventano schiavi e quelli che non accettandolo continuano irriducibilmente a rivendicare, per quanto gli sia possibile, un pensiero autonomo, critico e indipendente.
La storia di Pathos nasce proprio da questo punto/spunto: dal momento cioè in cui l’umanità diventa cosciente della propria condizione di schiava di se stessa. E da qui siamo partiti immaginando un futuro molto lontano. Un futuro in cui la Terra è morta a causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale e in cui gli uomini, per sopravvivere a un mondo ormai totalmente inabitabile e ostile, si sono rinchiusi in enormi strutture metalliche: una sorta di città-incubatrice, che li protegge, ma al tempo stesso li controlla anche.
L’idea era quella di provare a capire dove sarebbe potuta arrivare l’umanità evolvendo nella peggiore delle direzioni. Una direzione in cui il “Grande Fratello” fosse l’unica cosa in grado di tenere in vita l’uomo e quindi l’uomo, appunto per sopravvivere, ne avrebbe accettato qualsiasi condizione. Abbiamo immaginato un futuro in cui l’unico lavoro possibile fosse spalare rifiuti, accumulatisi per decenni sulla superficie terrestre e l’unica forma di denaro esistente fossero i propri 5 sensi. Un futuro in cui la vita di ognuno è costretta all’interno di una piccola cella metallica e fatiscente, quale unica protezione dal mondo esterno. Un mondo in cui le giornate si dividono tra bruciare spazzatura in una fornace, per dare energia all’intero sistema e l’immersione in sogni sintetici a pagamento, forniti dal sistema stesso. Tutto ciò che va in contrasto con il sistema però – cioè qualsiasi forma di sogno o pensiero immaginativo autonomo – viene punito con la disattivazione di uno dei sensi del malcapitato fino addirittura alla morte.
Avevamo in mente di porre proprio il libero arbitrio quale nemico estremo e indagare quindi su ciò che si sarebbe disposti a fare pur di tornare a sognare autonomamente, per tornare a essere liberi di immaginare.
Ovviamente, per scrivere una storia che fosse sì assurda, ma anche metafora credibile e funzionale, abbiamo provato a creare tutto un mondo anche al di fuori di ciò che si vede nel film. Un mondo con regole precise e un passato logico e coerente. Una società senza via di uscita che, come tutti i piani ben riusciti, non avesse punti deboli. Anzi in cui l’unico punto debole fosse il sacrificio personale, staccarsi dal sistema, l’auto-eliminazione!
Diciamo in definitiva che se dovessimo raccontare il mondo di Pathos sapremmo senz’altro cosa dire per molte ore. E penso che sarebbe tutto abbastanza interessante in quanto potrebbe stimolare riflessioni anche profonde, forse addirittura su ciò che siamo veramente o su ciò che vorremmo essere.”
“Raccontami qualcosa anche dal punto di vista produttivo – è uno degli argomenti di cui tratteremo spesso su questo magazine – e soprattutto della squadra di lavoro. Operazioni come queste funzionano se gli autori hanno le idee chiare fin dall’inizio ovviamente, ma anche grazie a una squadra di professionisti che si sono rivelati assolutamente all’altezza.”
“Dal punto di vista produttivo è stata una vera sfida. Siamo un piccolo team di autori e in genere tendiamo, forse con un po’ di arroganza, a realizzare tutto da soli. Questo però ci permette anche grande libertà espressiva, seppure ovviamente ciò moltiplichi i relativi sforzi e la conseguente fatica mentale.
Era la fine del 2004 quando abbiamo cominciato la fase di pre-produzione. A quel tempo eravamo indecisi se lanciarci nella costruzione fisica degli ambienti o se affidarci alla computer grafica. L’ambientazione che volevamo creare doveva avere un’atmosfera particolare, malinconica, doveva ricordarci film e libri della nostra infanzia, doveva rappresentare un futuro ormai già vecchio, impregnato di tecnologia passata e abbandonata a se stessa.
L’allestimento di scenografie reali però ci poneva alcuni limiti, sia estetici, sia di ripresa. Abbiamo deciso così di avventurarci nella realizzazione di un film di 17 minuti girato completamente in blue screen. Questo ci avrebbe permesso di sperimentare alcuni movimenti di camera particolari, ma soprattutto ci avrebbe dato totale libertà nella rappresentazione dell’ambiente perfetto per la nostra storia. Potrei dire che Gibson e Otomo hanno lasciato un segno indelebile nel mio immaginario ed è evidente che il cyberpunk anni ‘90 abbia influenzato pesantemente il design dell’opera.
Comunque, nel 2005, in Italia, girare un film in blue screen presentava ancora un problema fondamentale su tutti: il sistema di ripresa. A quel tempo le scelte possibili erano ancora la pellicola da una parte e il digitale dall’altra. La pellicola avrebbe ovviamente garantito alti standard di risoluzione, ma avrebbe anche fatto salire enormemente i costi di produzione e il budget a disposizione non sarebbe stato sufficiente. D’altro canto il digitale in circolazione a quell’epoca non avrebbe permesso la resa necessaria. Destino volle però, che proprio in quel periodo la Sony avesse avuto la geniale idea di lanciare sul mercato la HVR Z1, una delle prime camera digitali ad alta risoluzione e a basso costo, molto maneggevole e quindi perfetta per le nostre esigenze. Facemmo una telefonata a un rivenditore di Singapore e in pochi giorni avemmo concretamente tra le mani il nostro sogno futuro.
E cosi, dopo la costruzione di un set in blue screen da noi interamente progettato, ci siamo lanciati nella produzione vera e propria del film: in questo strano limbo cerulo, privo di coordinate, questo non-luogo (il teatro di posa), che non attendeva altro che di essere sostituito dalla nostra immaginazione.
Sul set eravamo davvero una piccola squadra di persone, 5 o 6 in tutto. E naturalmente ognuno di noi ha dovuto ricoprire più ruoli per arrivare alla fine delle riprese e poter passare finalmente alla post-produzione. Le riprese durarono una decina di giorni, ma l’inferno sarebbe cominciato solo dopo.
Quella che all’inizio era sembrata un’ottima idea, la ricostruzione digitale del nostro mondo futuristico, si rivelò un massacro. Lo scopo era quello di generare un ambiente credibile, non volevamo permetterci licenze poetiche, che suonassero come incoerenze. Ma anche per i VFX a quel tempo i mezzi a disposizione erano pochissimi. Perciò, come si fa in tutti i casi in cui non ci sono abbastanza soldi, abbiamo dovuto investire nell’unica risorsa a costo zero a nostra disposizione: il tempo.
E così per raggiungere il risultato che avevamo immaginato all’inizio della nostra avventura, abbiamo passato quasi 3 anni immersi in un mare di tracking, rendering, compositing e sound design. Ma infine, dopo lacrime, sudore, scontri e incontri, eravamo tutti soddisfatti del risultato finale. Avevamo effettivamente dato forma concreta al nostro incubo, al nostro mondo del futuro.”
“Parlami della tua attività di imprenditore. Come nasce Illusion, di cosa si occupa specificamente e come consideri l’avventura di Pathos nell’ambito della tua attività. Più come una passione o un hobby o piuttosto come il tassello di un progetto professionale più ampio e più a lungo termine in questa direzione di carattere così autoriale? Per esempio so che state lavorando a un nuovo progetto molto ambizioso. Di cosa si tratta e a che punto è?”
Illusion è il nome del mio studio di video-produzioni. Lo abbiamo fondato nel 2003, io insieme a Marcello Ercole, che è anche uno degli autori di Pathos. Lavoravamo insieme da alcuni anni in un’altra compagnia, ma la scelta di metterci in proprio sembrava la cosa giusta da fare. È stato tutto istintivo e immediato. Con Illusion portiamo avanti progetti commerciali, prodotti pubblicitari, documentari, film, animazione e VFX. Abbiamo ormai un buon portfolio clienti e devo dire che ci stiamo togliendo parecchie soddisfazioni.
La cosa interessante è che non vedo alcuna separazione tra il mio lavoro e la mia passione. Le cose fortunatamente coincidono e riesco quindi a passare con estrema facilità da un progetto commissionato a progetti personali di carattere più artistico.
Proprio in questo periodo, insieme a Riccardo Boccuzzi e a Tideup, stiamo lavorando ad un nuovo prodotto, Perfect Circles(ideato da Riccardo Boccuzzi, Dennis Cabella, Marcelo Ercole: n.d.r.), che combina perfettamente il carattere commerciale di Illusion con le sue ambizioni creative.
Perfect Circles è fondamentalmente un videogioco, ma è anche una specie di film interattivo, pensato per tablet e smartphone. Credo sia un’idea interessante perché vuole colmare il gap che ancora esiste tra l’intrattenimento tipico del videogame puro e quello della serie televisiva, mescolando le due modalità. È un’avventura cinematica, un thriller sci-fi/paranormale narrato con le regole del cinema classico, ma durante il quale lo spettatore può interagire e cambiare – nel vero senso della parola – il corso della storia, può esaminare gli ambienti alla ricerca di indizi e manipolare i movimenti del protagonista per aiutarlo a capire, fuggire, sopravvivere…
Inoltre, come nella miglior tradizione televisiva, Perfect Circles è diviso in episodi, ognuno dei quali termina con un accattivante cliffhanger che dovrebbe invogliare l’utente/spettatore a desiderare l’episodio successivo. Come dicevamo creatività, espressione artistica, ma anche imprenditorialità e aspetto economico.
Il nostro collega e amico, il regista Paolo Gaudio, ha vinto il Grand Prix du Festival alla “Samain du cinéma fantastique 2014” (Francia) con il suo lungometraggio Fantasticherie di un passeggiatore solitario, per il quale abbiamo curato tutta la parte dei VFX.
Abbiamo inoltre lavorato, cosa che ci inorgoglisce particolarmente – sempre relativamente ai VFX – anche al “Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone.
Direi che cose belle ne stiamo facendo e che abbiamo già in testa qualche idea interessante per progetti futuri che non vediamo l’ora di sviluppare.
Come dicevo prima, sento che le cose stanno per cambiare in meglio. Conosco un sacco di persone in gamba che non vedono l’ora di essere messe alla prova. Se solo si riuscisse a fare squadra, mettendo da parte quell’ego istintivo che un po’ ti prende quando ottieni qualche successo, secondo me si potrebbe anche diventare un punto di riferimento per un nuovo mondo – tutto italiano – di produzioni creative.
“Grazie Dennis. Innanzitutto per la tua disponibilità, ma anche soprattutto per la tua sincerità. Proprio come te penso che sia possibile provare a connettere i singoli, conoscersi, confrontarsi, mettere in circolo le idee, in una parola fare squadra… Credo in una specie di vera e propria Factory di talenti, che rivendichi con forza il proprio ruolo e il proprio valore e che possa addirittura segnare il cammino per il futuro della produzione artistica in questo Paese. Perché i giovanissimi, oggi davvero disorientati, possano ritrovare coordinate un po’ più salde. Ancora una volta grazie.”
Grazie a te. E un saluto ai lettori… ovviamente.
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