Le altre narratività di EFFE.

3Questo mese mi sono imbattuto in un bel racconto scritto da Costanza Masi e pubblicato sul numero tre della rivista Effe, nata da una collaborazione tra la rivista letteraria online Flanerì e lo studio editoriale 42 Linee.

Effe si presenta quale periodico di Altre Narratività e, più precisamente, come si legge sul sito di 42 Linee, “nasce dall’esigenza di creare una zona franca per scrittori emergenti e giovani illustratori. Da qui l’idea di pubblicare un volume antologico in cui far convogliare le facce della creatività. Un esperimento indipendente che si propone di sondare gli umori della scena letteraria, divenendo una vetrina per gli esordienti e un passaggio collaudato per gli autori già noti.”

Si tratta di un’operazione coraggiosa, interessante e piuttosto in controtendenza, rispetto alle proposte letterarie per lo più mainstream e generaliste dei colossi dell’editoria. Non è corretto, ovviamente, fare di tutta l’erba un fascio: nel catalogo di ogni grande o medio Editore, ogni anno, ci sono e ci saranno sempre imperdibili scoperte e viaggi emozionanti e continueranno a resistere, qua e là, isole di rigore e tenacia letteraria scevri da compromessi, se si è ovviamente disposti a cercarle attivamente, a scovare e scavare con le unghie la superficie delle vetrine e dei parallelepipedi incolonnati del consumismo illetterato che va per la maggiore. Ma la sensazione di freschezza e originalità, piuttosto densa, che si coglie tra le righe di questa rivista orgogliosamente indie, non sarà comunque facile trovarla sugli scaffali lottizzati delle catene librarie brandizzate. Ecco, l’ho detto!

Una sorta di sentito editoriale, affidato alla scrittrice e poetessa Carla Vasio, introduce il numero #3 di Effe e sintetizza perfettamente l’approccio della rivista, fin dal titolo: “Contro l’inerzia nel pensare e la pigrizia nel proporre”. Carla Vasio parla di un’Italia che “sembra a dir poco impigrita, obbediente a una convenzionalità collettiva che è come dire rassegnata alla mediocrità”. E come darle torto? Iniziative come questa si offrono, in un certo senso, con genuina caparbietà, quasi come un’urgenza necessaria: qualcuno insomma, deve pur farsene carico. Con convinzione e fatica, spesso poco ripagata, senza dubbio poco ringraziata e quasi mai applaudita, ma, finché è possibile, sempre avanti, con coraggio. Perché, appunto, si tratta di una necessità (non solo per chi legge e chi scrive, ma anche umana); perché è utile e perché, in poche parole, è semplicemente giusto farlo.

Su questo numero #3 di Effe, compaiono quindi racconti di Mari Accardi, Carolina Crespi, Francesca Romana D’Antuono, Margherita Ferrari. Maddalena Francavilla, Marzia Grillo, Costanza Masi – appunto, sul quale ci soffermeremo a breve – Alessandra Minervini, Giulia Orlando, Beatrice Serini e la stessa Carla Vasio. Vale la pena leggerli. Tutti. E vale anche la pena guardarli. Proprio così, guardarli, perché tutti i racconti sono accompagnati da un’illustrazione, che ne coglie l’anima e ne restituisce l’atmosfera in un’unica, elegante immagine. L’icona concentrata, insomma, di tutte le emozioni che le righe scritte sono in grado di restituire. E’ questa l’altra bellissima idea di Effe: offrire al lettore l’immagine delle parole; la visualizzazione concreta dei residui che una lettura importante lascia sempre dietro di sé, come la bava di una lumaca. E queste immagini, queste interpretazioni iconiche, sono così azzeccate, che finiscono per far parte integrante della narrazione stessa. Due autori, quindi, per un unico “testo”: immagine e parole. Gli illustratori di questo numero sono Eleonora Antonioni, Margherita Barrera, Darkam, Alessandra De Cristoforo, Mariachiara Di Giorgio, il Pistrice, littlepoints…, Misstendo, Amalia Mora, Sara Stefanini, Giulio Turcato.

Davvero una bella proposta, insomma, quella di Effe. Solo quando si ha veramente qualcosa da dire, si riescono a mettere insieme autori che hanno veramente qualcosa da dire. Una proposta che fa certamente onore a Flanerì e 42 Linee, ma che, insieme ad altre realtà – altrettanto fresche e altrettanto indie e di cui magari avremo modo di parlare in futuro – dovrebbe essere attentamente osservata e seguita dai, chiamiamoli così, all’inglese, decision maker o talent scout – se esistono – della grandi aziende editoriali, perché rappresentano, senza dubbio, un interessantissimo incubatore – soprattutto quando offrono visibilità agli autori esordienti o emergenti – di talenti. E voltargli semplicemente le spalle, rappresenta, a mio parere, un peccato imperdonabile.

Uno di questi talenti è appunto Costanza Masi, che propone il racconto “Susanna”, perfettamente illustrato da Alessandra De Cristofaro. Cominciamo da qui, dall’illustrazione: una figura evidentemente sovrappeso e piuttosto inespressiva, come se fosse stata colta in una non meglio precisata attesa, seduta a una scrivania. Sostiene lievemente una cornetta del telefono piuttosto grande, sulla quale ha poggiato la guancia tonda. Nell’altra mano stringe un cellulare con cover conigliesca rosa. Davanti a lei, sul piano della scrivania piuttosto spoglio, compaiono solitari una pianta, una cartellina con pochi fogli bianchi, un blocchetto di post-it, un bicchiere con qualche penna e un paio di forbici, ma soprattutto rossetto e smalto per le unghie. Sulla parete alle sue spalle un orologio segna le dieci e quattro minuti circa (probabilmente del mattino, perché con ogni probabilità la donna è in ufficio, al lavoro).

La protagonista del racconto, la narratrice, è una giovane “precaria”, in molti sensi. Innanzitutto nel senso professionale. Passa da un lavoro all’altro, da una sostituzione maternità all’altra, inevitabilmente costretta a conciliare i periodi di attività con quelli di inattività, nello sforzo e nella speranza di ridurre sempre di più questi ultimi, ovviamente. L’ennesimo colloquio che dà il via, fortunatamente, a un nuovo periodo di attività, rappresenta così per lei un interessante pretesto per raccontarsi. Quando descrive lo spazio intorno, infatti, quando presenta le persone (i nuovi colleghi), in realtà parla sempre e comunque di sé. Ogni sfumatura descrittiva non è altro che, in realtà, una sfumatura del suo personale – satirico – punto di vista sul mondo e dei suoi personalissimi sentimenti. Ogni pennellata caratteriale, di questo o quel comprimario, mentre ci fa conoscere esteriormente, la situazione e l’ambiente narrativo, in realtà, quello che ci fa conoscere veramente e profondamente, intimamente oserei dire, è proprio la protagonista stessa, con tutta la sua forza e con tutte le sue fragilità. La Susanna del titolo è appunto una nuova collega; un personaggio senza dubbio eccentrico, che passa l’intera giornata a far di tutto, tranne che a lavorare pare. Ma quel che conta davvero è che, alla fine, Susanna è uno di quei personaggi che dopo che è stato messo sulla pagina, ti viene da gridare: “menomale!”, perché a quel punto non riesci proprio ad immaginarti la sua “non esistenza letteraria”. E non è tutto qui. Alla nuova esperienza professionale della protagonista del racconto – che, lo ripeto, non è Susanna, ma la narratrice – fanno da contrappunto anche episodi personali e intimi, come il rapporto con la madre o una relazione finita male: una serie di flashback, che rappresentano altrettante lacerazioni, ferite chiaramente aperte, lungi dal cicatrizzarsi. E il tutto procede in un montaggio incrociato ritmicamente molto preciso, che alla fine restituisce un ritratto per certi aspetti ansiogeno, eppure, per altri, colmo di speranza, come nel finale, nelle cui parole, sembra di scorgere l’arcobaleno dopo un brutto temporale e quel raggio di sole che ha trafitto le nuvole con la chiara intenzione di dissolverle tutte quanto prima. Ma ripeto, non c’è molta differenza tra le parti chiaramente intimistiche di questo racconto e quelle in cui la protagonista tratteggia Susanna e con lei il nuovo ambiente professionale in cui si ritrova gettata. In entrambi i casi ella parla comunque di sé. L’oggetto del racconto è sempre, esclusivamente, lei stessa, con la propria unicità e la propria lucidissima personalità, che però rappresenta anche, in un certo senso, il ritratto di un’intera generazione: sensibile, matura e anche profondamente incazzata. E a ragione, direi.

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