Letteralmente invasi dai supereroi a stelle e strisce, così magnificamente traboccanti di meraviglia tecnologica, quanto troppo spesso esageratamente edulcorati, in un modo talvolta snervante e dopo la prova piuttosto incolore (o invisibile) di Gabriele Salvatores, quando sentii parlare, per la prima volta, finalmente, della nascita dell’unico, vero, supereroe italiano, la mia perplessità, mista a una nota di scettico sdegno, fu piuttosto grande. Cercate di capire: sono un appassionato di fumetti supereroistici da sempre e appartengo in pieno alla generazione “Jeeg Robot”. Già ne avevo abbastanza della deriva degli Studios americani: supereroi che cavalcano con disinvoltura i mirabolanti “special effects”, che però finiscono per essere l’unico cuore pulsante di questo genere di film, mentre tutto il resto, a cominciare dalle sceneggiature, sembra lasciato al caso (struttura zoppicante, dialoghi improbabili e fuori luogo). Figuriamoci cosa potevo aspettarmi quindi da un qualche “scimmiottamento” all’italiana, pensai.
E poi ho visto “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti.
Primo lungometraggio di un attore, musicista, produttore e regista, che aveva già ottenuto notevoli riconoscimenti con i suoi cortometraggi (soprattutto “Basette” e “Tiger Boy”).
Ebbene Gabriele Mainetti mi ha davvero sorpreso. D’altra parte recensioni ne avevo lette molte, come dicevo, tutte troppo positive, per essere semplicemente e semplicisticamente compiacenti. Eppure continuavo a chiedermi, sarà proprio così? Sarà davvero quella ventata di freschezza di cui tutti parlano?
Be’ credetemi, lo è.
Innanzitutto perché è un film onesto. Si percepisce la passione che c’è dietro. E i complimenti vanno davvero a tutti. Al regista certo, ma anche agli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti, alla fotografia di Michele D’Attanasio, alle musiche (misuratissime), dello stesso Mainetti e Michele Braga e agli attori, ovviamente. Supreme le interpretazione di Claudio Santamaria, Luca Marinelli e Ilenia Pastorelli.
Ma cos’ha questo film di così speciale? Il fatto è che Mainetti rinnova, senza sostanzialmente inventare niente, almeno fino a un certo punto. La struttura è classica, certo, ma il contesto in cui vengono calate le peripezie del supereroe Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) e di tutti gli altri è, per certi versi, sorprendente. Il film non fa sconti, da questo punto di vista. Il nostro eroe innanzitutto non lo è per nulla. Ladruncolo di Tor Bella Monaca, apatico, senza amici (quelli di gioventù se ne sono andati tutti, uno dopo l’altro, quasi tutti per morte violenta da malavita), in evidente sovrappeso. Quando entra in contatto con la sostanza radioattiva (nel Tevere), sta cercando di sfuggire a un inseguimento per aver rubato un orologio. Vive nel degrado più totale, in un appartamento fatiscente, traboccante di DVD porno e nutrendosi esclusivamente di yougurt. Non è che Enzo non abbia una morale, sembra piuttosto che non sappia neppure cosa sia una morale, come se nessuno gliene abbia mai fornito le coordinate: non si tratta di giusto o sbagliato, buono o cattivo, ma dell’unica vita che conosce e delle vite degli altri, Enzo Ceccotti, semplicemente se ne frega. E’ un asociale in un senso profondissimo e verissimo. Lo è in tutto e per tutto, anche in fatto di donne, d’amore e di sesso (dato che il suo unico metro di paragone in questo senso è appunto il porno). Che se ne fa un uomo così di una superforza? Per lui non è altro che un modo comodo e agile per sbarcare il lunario. Sradica a forza di braccia un bancomat, per esempio, e rapina con estrema facilità un portavalori, incrociando così le sue sorti con quelle dello “zingaro” (Luca Marinelli), delinquente psicopatico, che brama, prima ancora dei soldi facili, le luci della ribalta mediatica. L’interpretazione di Marinelli è sorprendente. Così come Ceccotti è un supereroe, calato nel più totale degrado suburbano delinquenziale, così Marinelli è un Joker che vive a “Gomorra” e dintorni.
E poi c’è lei, Alessia (Ilenia Pastorelli), che è in fondo il cuore, tenero e malinconico, attorno al quale ruota tutta la vicenda, o quanto meno, la trasformazione del supereroe. Una vita tragica, fatta di abusi e di violenza. Alessia apparentemente non ci sta tanto con la testa, ma la sua invece appare infine come una scelta lucidissima e coerente, fino alla fine. Il mondo che la circonda è troppo brutto perché lei possa accettare di viverci. Così si è rifugiata altrove, in un suo mondo in cui lei è una principessa e il suo eroe è Hiroshi Shiba, alias Jeeg Robot d’Accaio. E’ lei, come lo zio di Peter Parker “Spiderman”, ad aprire gli occhi all’eroe, a fargli comprendere che da grandi poteri derivano grandi responsabilità e che chi ha un dono così grande, deve metterlo a disposizione di tutti. E’ lei che metaforicamente, ad ogni battuta di dialogo, ad ogni sguardo, grida in faccia a Enzo “corri ragazzo laggiù, vola tra lampi di blu, corri in aiuto di tutta la gente, dell’umanità”…
La relazione tra Alessia e Enzo è davvero struggente. Mainetti, sia attraverso i dialoghi, sia, soprattutto attraverso le immagini, restituisce un’atmosfera potente: il palloncino nel centro commerciale, Alessia col suo vestito da principessa sul tram, Alessia e Enzo al Luna Park deserto, Alessia e Enzo che si abbracciano scolpiti dalla luce di un proiettore, mentre sullo schermo i loro corpi si fondono proprio con quelli di Jeeg Robot: “Cuore e Acciaio”.
Ci sarebbero tante altre cose da dire sull’esordio di Mainetti, ma alla fine ciò che conta davvero è vedere il suo film. E quindi andate a vederlo questo “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Andate a vederlo questo fumettone, che non ha bisogno di mirabolanti effetti speciali per intrattenere e coinvolgere. Un fumettone a tratti iperrealista, a tratti romantico, a tratti ironico, a tratti violento. Un film che ammicca a certo cinema di genere italiano degli Anni Settanta (ma senza nostalgia e con genuina modernità), che abbraccia alcune lezioni tarantiniane, ma senza alcun compiacimento citazionista e che quando deve mettere in scena i cattivi, prende quelli veri, come fa la serie Tv “Gomorra”. Prende quelli che non ci pensano un attimo a spaccarti il cranio con un iphone del colore sbagliato, prende quelli disposti ad aprire la pancia di un cadavere per recuperare gli ovuli di droga che ha ingerito, quelli che fanno sbranare dai cani il proprio migliore amico e che ti danno fuoco da vivo, se non stai alle regole. Così cattivi da sembrare finti, appunto, uomini di un mondo altro che non sembra appartenere al nostro, un mondo di finzione in cui possono anche esistere i supereroi, magari, ma che ti lascia comunque un gusto amaro in bocca, perché riesci a crederci, perché ti viene da pensare che in fondo possa essere tutto vero.
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