Sono le 8 del mattino di lunedì 5 gennaio 2015, ho dormito a casa dei miei genitori. Entra mia madre e mi chiede se sono sveglio, quindi mi dice “è morto Pino Daniele”. Ci metto qualche minuto per capire che non si tratta di un incubo. Accendo il cellulare e vado su internet, pregando ogni dio possibile che si tratti di una bufala. Ma non è così, “zio Pino” ha raggiungo Massimo in Paradiso, perché se esiste davvero, non può che accogliere persone come loro.
Vi è mai caduta una montagna addosso? Ecco, quella è la sensazione che ho provato: una montagna di ricordi, tutti insieme, una montagna di dolore… non so da quel momento quanto ho pianto.
Chi non è di Napoli può capire fino ad un certo punto, chi non è un musicista napoletano può capire ancora meno. Pino Daniele non è stato solo un cantante, un chitarrista, non uno qualsiasi, Pino Daniele È Napoli, con le sue contraddizioni, con la sua bellezza, coi chiaroscuri, il ritmo frenetico, la melodia potente capace di conquistare il mondo, è popolo e cultura elevata, è Scampia e Vomero, denuncia e rassegnazione, impegno e superficialità. Ci ha talmente descritti, descrivendo sé stesso, che ormai siamo totalmente identificati in lui.
Qualcuno che dovrebbe cogliere l’occasione per star zitto ha detto cose assurde, tipo che Pino aveva preso le distanze dalla città, andandone via. Ora, per quanto possa infastidire che un tuo mito non stia alla porta accanto, bisogna però mettersi nei panni di un artista, che ha l’esigenza lavorativa di vivere prima di tutto in posti dove sia “centrale” la sua attività (Roma, Milano), e poi dove sia meno sotto i riflettori e anche con un po’ di distanza dal troppo affetto (quello sì) che un popolo come quello napoletano può nutrire. Pino da subito si è trasferito, a Formia, dove aveva casa, studio. Poi altri spostamenti fino al buen ritiro in Toscana. Detto ciò bisogna sottolineare che non ha mai rinnegato la sua città; ci ha sempre difesi, ma al tempo stesso pungolati, stimolati al cambiamento. Se prese mai distanze, queste furono quelle da cartolina, dalle immagini oleografiche che ancora oggi qualcuno si ostina a usare per coprire da una parte i problemi reali, dall’altra una città che diventa sempre più moderna ed europea, con tutta la fatica che può esserci in una realtà come Napoli.
Napoli nel dialetto, nell’accento, nel carattere, nel sorriso, sempre presente tra le note e nei tanti modi di dire presenti nelle sue canzoni, che ha fatto scoprire a molti la parlesia, noi che ci chiedevamo chi fosse lo “jammone”.
Perché Pino Daniele è così rappresentativo ed amato dai napoletani? Prima di tutto perché rappresenta un simbolo di rivalsa, un talento che ha sudato ogni risultato ottenuto. Nascere in un quartiere popoloso, difficile, in una famiglia numerosa, modesta, ed arrivare a suonare coi più grandi musicisti del mondo… se non è questa rivalsa! È il nostro “sogno americano”, il faro, l’obiettivo cui puntare, il riferimento di ogni ragazzo che va a comprare la sua prima chitarra, che scrive la sua prima canzone.
Napoli oggi è purtroppo piena di un sottobosco fatto di improbabili cantanti e autori, dove è nata la forma canzone oggi spopolano più che mai (segno del degrado culturale cui versa la città) i cosiddetti neomelodici (e qualche colpa di questo fenomeno va data anche a qualche giornalista che ha lucrato sullo sdoganamento degli stessi). Guardando questa pochezza però ti fermavi e pensavi “vabbeh, però abbiamo anche Pino Daniele”. Non poter dire più questa frase fa male da una parte, ma dall’altra investe di nuova responsabilità chi crede in una realtà artistica diversa della nostra città.
Pino credo sia stato l’artista con l’apertura mentale maggiore in Italia e forse nel mondo. Pronto dall’inizio a qualsiasi contaminazione, perché nato in una cultura meticcia di natura, ha mischiato generi, linguaggi, sonorità, dalla tradizione partenopea al blues, jazz, rock; Europa, America, Africa hanno convissuto nelle sue composizioni, anima latina e rabbia metropolitana, fino a sfociare negli esperimenti madrigalistici di Gesualdo da Venosa.
Ha collaborato con chiunque: Baglioni, Vasco, Giorgia, Pat Metheny, Al di Meola, per fare pochi nomi della lunghissima lista; ha riempito con concerti memorabili stadi, palazzetti, piazze… su tutte la più cara, Piazza Plebiscito, teatro del fiume di gente del 1981, passando per altre occasioni, fino al mare di gente di ogni generazione di mercoledì 7 gennaio 2015, per l’ultimo saluto. Io ero lì e la cosa che mi ha colpito di più è stato il silenzio irreale che già un’ora prima si era impossessato della piazza… eravamo quanti, 150mila? 150mila persone in silenzio in attesa di dare l’ultimo applauso al nero a metà, anima viva e vera di Napoli.
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