STONER di John Edward Williams

stonerC’è un caso letterario piuttosto curioso, esploso lo scorso anno (seppure la pubblicazione risalga al 2012), ma il cui riverbero ancora, ogni tanto fa parlare qua e là di un piccolo libro pubblicato da Fazi Editore. Lo si potrebbe definire il caso di una rivincita postuma. Mi riferisco al bellissimo Stoner di John Edward Williams, regolarmente pubblicato negli Stati Uniti nel 1965, ma ignorato dal pubblico dei lettori risultando così un fiasco di vendite clamoroso (appena 2000 copie). Il romanzo viene però ripubblicato dalla Vintage Classic nel 2003 e poi nuovamente dal New York Review of Book Classics nel 2006. E a questo punto succede qualcosa. Grazie al passaparola, primo fra tutti quello dalle caratteristiche esponenziali dei social network, Stoner diventa un vero e proprio caso editoriale fino  che – sei anni dopo, nel 2012 appunto –  per l’Italia lo pubblica Fazi (con la traduzione di Stefano Tommolini). E’ la storia di una storia che ce la fa, quindi, nonostante tutto! I commenti di chi ha avuto modo di leggere il romanzo sono praticamente unanimi (seppure ci sarà sempre chi fa del “canto fuori dal coro” la propria cifra espressiva) e tutti entusiastici: recensioni su quotidiani e riviste, post e tweet di anonimi lettori di tutto il mondo e di lettori meno anonimi o addirittura famosi  (come divi cinematografici, scrittori, sceneggiatori, editor delle serie tv più in voga) in grado evidentemente di orientare e condizionare il proprio pubblico di riferimento (e menomale… una volta tanto centoquaranta caratteri non proprio buttati al vento).

“Appena inizi a leggerlo senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po’ troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori”. (Ian McEwan).

“Il ritratto magistrale di un uomo autenticamente virtuoso”. (The New Yorker)

“Questa è grande arte”. (Le Figaro)

“Stoner è una storia perfettamente costruita, di un gelido matrimonio e di un disperato amore universitario; si è così vicini all’infelicità del protagonista che si ha paura di respirare”. (Nick Hornby)

“Questo è semplicemente un romanzo che parla di un ragazzo che va all’università e diventa professore. Eppure è una delle cose più affascinanti che potrete leggere”. (Tom Hanks)

“Stoner è qualcosa di più raro di un grande romanzo – questo è un romanzo perfetto, così ben narrato, con una lingua superba e così profondamente toccante da levare il fiato”. (Morris Dickstein, The New York Times)

E la cosa più sconcertante è che è tutto vero. Stoner è effettivamente un libro meraviglioso. Ogni tanto successo di vendite e qualità del libro combaciano (in realtà checché ne pensino i manager contabili a capo delle case editrici, capita più spesso di quanto si pensi e più spesso ancora, ahimè, fuori dall’Italia). È evidente, come dicevamo, che in questo caso la condivisione social abbia giocato un ruolo di primaria importanza: un case history che meriterebbe di essere studiato approfonditamente. Ma da un punto di vista squisitamente letterario la domanda più interessante diventa decisamente un’altra. Perché in effetti, al primissimo sguardo, quella di William Stoner non è certo una “grande storia”, di quelle che si penserebbe possano attrarre un così gran numero di lettori. Come può essere dunque che una storia così da nulla, un’ordinaria esistenza, fin troppo pacata e tranquilla, possa suscitare un così diffuso clamore? Stoner è uno di quei libri che quando hai finito di leggerli ti lasciano in testa una sensazione di riverbero. Come se ci fosse urgentemente bisogno di ricominciare la lettura da capo per poter eliminare i residui. Perché? Semplice. La risposta sta tutta nella scrittura e nella sensibilità di John Edward Williams. Egli ci presenta la vita (praticamente tutta la vita) di William Stoner, ovviamente selezionando solo alcuni episodi salienti, eppure sembra che non manchi nulla, che dentro quelle pagine (relativamente poche tra l’altro) ci sia tutto quello che c’è da sapere su di lui. William Stoner diventa così, strada facendo, una persona che arriviamo a conoscere intimamente e l’empatia con lui alla fine sarà fortissima. Magari non condividiamo la sua apparente apatia né la sua rassegnata accettazione dell’inaccettabile, ma non possiamo essergli indifferenti, questo proprio no! D’altra parte non solo ogni singola pagina, nella prosa di Williams è densa, ma anche ogni singola frase. In pochi paragrafi – a volte in pochissime righe – egli ci racconta ogni volta una piccola storia, ricca di sfumature, di epifanie, di conseguenze e tutto procede con una coerenza consequenziale sbalorditiva, fino alla fine. Dal punto di vista sintattico la scelta di Williams è evidente fin dall’esordio del romanzo nel quale riesce a condensare nel breve spazio di cinque righe tutta la storia che seguirà. Un’anticipazione che verrà ampiamente rispettata, un patto con il lettore mai messo in discussione. Dunque è soprattutto questa ammirevole capacità di sintesi, attraverso una scrittura prosciugata di qualsiasi inutile orpello, semplicissima e così lineare da apparire addirittura frustrante nella sua ostinata quanto luminosa rarefazione, a condurci senza esitazioni, con mano ferma, nella testa e nel cuore del professor Stoner. Succede così che scivoliamo al suo fianco senza rendercene conto e gli siamo vicini, così vicini che a un certo punto non può che apparirci con evidenza la verità: quella di Stoner non è una storia di fallimenti, non è la vita di un uomo mediocre. Egli non perde affatto la sua battaglia con la vita, anzi, la sua è addirittura una storia di emancipazione, di passione e di realizzazione personale.

“È la passione, Mr Stoner”, disse allegro Sloane, “La passione che c’è in lei. Nient’altro.” (John Williams,Stoner)

Infatti alla fine della propria vita egli non ha troppi rimpianti e si potrebbe quasi dire che abbia vissuto un’esistenza, dal suo punto di vista, addirittura felice (contrariamente a quel che pensa Nick Hornby: vedi cit.). Ed è probabilmente proprio questa convinzione – chiara eppure per certi versi inafferrabile – che da un lato sembrerebbe non poggiare su nulla, a ronzarci nella testa, chiamandoci con insistenza a una nuova lettura del romanzo. Tra le varie recensioni che mi è capitato di leggere, credo che quella di Daniela Brogi, apparsa sul Lit Blog Le parole e le cosecolga con acume aspetti interessanti, che condivido appieno: Stoner è così denso che potrebbe essere l’esempio emblematico del “conto di una vita”, l’esempio perfetto di quel che si dice “tirare le somme”. Siete alla fine dei vostri giorni su questa terra e vi tocca presentarvi di fronte al Creatore o a chi ne fa le veci, Gesù, Pietro o di chiunque si tratti, per l’estremo giudizio. Vi viene chiesto di fare il “pitch” della vostra vita e avete un certo tempo a disposizione e un’unica occasione, dovete scegliere con assoluta cura le parole, selezionando gli episodi significativi in grado di restituire la complessità della vostra esistenza. Ebbene nel caso di William Stoner (meglio solo Stoner, senza nome e senza Professor) il suo pitch non potrebbe corrispondere ad altro che al romanzo di John Edward Williams. Anzi si potrebbe dire che qui è proprio il lettore a fare le veci del Creatore, perché la morte del protagonista è evocata fin da subito. Stoner è un condannato (come chiunque altro), che si gioca la sua occasione come meglio può (come chiunque altro) e vive tutta la propria vita, fino alla fine dei suoi giorni, come ritiene giusto (come dovrebbe fare chiunque altro), affidando poi alla voce del narratore John Edward Williams la responsabilità – ben riposta – di tirare le somme. Così, come sottolinea benissimo Daniela Brogi, noi ci disponiamo fin da subito nei suoi confronti con animo benevolo, perché in qualche modo guardiamo alla sua vita dalla fine, quando è già tutto successo. Proprio così come lo stesso Stoner, dopo quell’illuminazione che dà una svolta alla sua vita – il sonetto numero 73 di Shakespeare – si dispone nei confronti della propria stessa vita (come se la guardasse dall’esterno, con discrezione, lasciando che le cose accadano come devono accadere, senza poter più intervenire). Così recitano infatti gli ultimi due versi del sonetto shakesperiano: “Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce per farti meglio amare chi dovrai lasciare fra breve”.

Qualunque cosa facciamo, per quanto possa essere avventurosa o meno la nostra vita, al di là delle relazioni, delle passioni, dell’amore, dei successi e degli insuccessi, sia che essa scorra come un fiume placido e tranquillo, sia che ribolla nella corrente, avvolgendo mille ostacoli, abbandonandosi ad altrettanti gorghi, risalendo, scartando, gettandosi a valle con furia, un unico destino ci accomuna tutti inesorabilmente. Quel che abbiamo qui, dovremo un giorno lasciarlo e il solo pensiero ci riempie inevitabilmente di tenerezza, d’amore e d’attenzione, nei confronti di ciò che ci circonda e a maggior ragione nei confronti di ciò che ci sopravvivrà. Questa prospettiva non può essere motivo di rassegnazione, anzi. Proprio perché siamo consapevoli fin dall’inizio dell’esito ineluttabile che ci attende dovremmo vivere la nostra vita senza inutili e faticose dispersioni e con assoluta coerenza. E forse, in qualche modo, è proprio così che Stoner vive la propria. Non lo vediamo in modo evidente, ma riusciamo a percepirlo quasi confusamente dietro l’apparente esistenza di un uomo qualunque, apparentemente infelice. Ed è forse proprio a questa così ben celata, quanto ineluttabile, esemplarità che inconsapevolmente ci affezioniamo leggendo il romanzo di Williams.

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