Chi ha seguito il percorso artistico di Paul Thomas Anderson (da Boogy Nights a The Master, passando per Magnolia e Il Petroliere), di fronte a questo piccolo gioiello che sembra apparentemente bandire ogni virtuosismo estetizzante per dedicarsi con compiaciuta riverenza, prima di tutto all’adattamento, potrebbe essere tentato di liquidarlo come un’involuzione. Niente di più sbagliato. Vizio di forma si inserisce perfettamente nel percorso artistico di Anderson e stabilisce un’ulteriore vetta nella ricerca di una sua personale “perfezione” filmica. Innanzitutto si tratta dell’adattamento del romanzo omonimo nientemeno che di Thomas Pynchon. Nome che prima di questo libro e di questo film avrebbe suscitato in qualsiasi regista non solo un sano timore reverenziale, ma probabilmente anche frustrazione e sgomento: parliamo di una scrittura pirotecnica e complessa, di trame labirintiche e scomposte, che magicamente si ricompongono, per poi scomporsi nuovamente, infarcite di una comicità sia fisica – al limite dello slapstick – sia cerebrale; parliamo di allegorie e metafore che rimbalzano l’una contro l’altra e tra un piano e l’altro di grattacieli di senso; di digressioni rocambolesche e personaggi eccessivi, talvolta caricaturali, che vagano in un caleidoscopio all’apparenza insignificante, in cui il significato si compone proprio attraverso la sua continua sottrazione dall’intreccio narrativo. In una parola il postmoderno, signori e signori, con tutto il suo armamentario decostruzionista! Ma Vizio di forma rappresenta anche una cesura netta nell’opera pynchoniana, tanto da poter candidamente affermare che il romanzo si inserisce nel filone hard boiled più classico, da Hammet, a Spillane a Chandler (genere con una spiccata vocazione cinematografica, che va da Robert Aldrich a Howard Hawks, fino a Robert Altman, soprattutto Altman, che nella formazione estetica di Anderson è evidentemente imprescindibile) e che fa quasi gridare: “Se non ora, quando?” Ma se è vero che Vizio di forma possa apparire come una sfida più alla portata rispetto a altri romanzi di Pynchon, forse anche proprio per questo, molte insidie erano comunque in agguato. Ma il risultato è un film meraviglioso, che rappresenta, da parte di Anderson, un omaggio appassionato e sincero allo scrittore e all’opera. Certo, Anderson ci mette anche del suo. Il suo talento dietro la macchina da presa è fuori discussione. La capacità di dirigere gli attori – qui perfetti, Joaquin Phoenix e Josh Brolin, su tutti – (ricordate anche il Tom Cruise di Magnolia, il Philip Seymour Hoffman di The Master, o ancora Il Petroliere Daniel Day-Lewis) è evidente, così come indubitabili sono le sue doti di scrittore e sceneggiatore. La cura dei dettagli poi è quasi ossessiva: da quelli più insignificanti alla scelta della fotografia – ancora una volta affidata a un ispirato Robert Elswit (vincitore del Premio Oscar per Il Petroliere) – o della colonna sonora – per niente scontata (la firma Jonny Greenwood, già Orso d’Argento per Il Petroliere) e nella quale troviamo pezzi come Vitamin C, Can, Here Comes the Ho-Dads, Marketts, Journey Through The Past, Neil Young, Simba, Les Baxter.
In questo reciproco compenetrarsi di personalità autoriale e desiderio filologico appare chiaro come anche una scelta apparentemente accessoria, come quella di girare in pellicola, non sia banalmente il frutto di una scelta eccentrica. Il fatto che si trattasse di pellicola scaduta, così si dice, tantomeno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed è assolutamente coerente, addirittura necessario. La pellicola rappresenta l’allusione nostalgica a un mondo finito. La pellicola scaduta dona probabilmente quella sensazione di rovina e decadenza che percorre tutta la vicenda. Infatti, al di là dell’esteriore intreccio hard boiled, cosa racconta veramente Vizio di forma? Quello che a Pynchon interessa e che Anderson ha saputo cogliere perfettamente è proprio il racconto di un’epoca nel suo disgregamento, cosicché, quindi, l’esteriore scelta del mezzo tecnico – la pellicola – diventa qui componente estetica e allegorica fondamentale.
Vizio di forma rappresenta il cortocircuito tra rivoluzione e restaurazione, tra cultura e controcultura, si crogiola nell’amara sensazione della perdita del paradiso, nel cinico disvelamento dell’utopia degli Anni Sessanta, con la sua libertà sessuale, lo spiritualismo orientaleggiante, scandito dal mantra peace&love, dal senso di fratellanza e comunità e soprattutto dalla comunitaria dipendenza da sostanze varie. Un mondo che verso la fine dei favolosi Sixties si schianta contro l’incubo delle atrocità mansoniane e quello dell’”angelico inferno” del concerto di Altomont, solo pochi mesi dopo il sogno collettivo di Woodstock. Un disfacimento lento e inesorabile, che spiana la strada al feroce edonismo individualista reaganiano. Cosa è andato storto? Com’è stato possibile lasciare che il sogno si disgregasse tra una tirata e l’altra, fino all’ultima succhiata di sostanze, bruciacchiandosi il pollice e l’indice pur di illuminare in un sospiro, ancora uno, ancora una volta, il neon rosso della combustione della cartina, un attimo prima che tutti i neon dei Sixties si spegnessero definitivamente?
Non c’è da stupirsi allora che alla fine di tanto fatuo girovagare, si torni – almeno visivamente – all’inizio. Che alla fine il film dipinga una sorta di arrabattata circolarità o una specularità degli opposti (che guarda a caso allude perfettamente anche al rapporto tra Doc e Bigfoot, così come tra la Black Guerrila Family e la Fratellanza Ariana e tra l’ebreo Wolfmann e la sua stessa indole nazista e tra le colate di cemento dei palazzinari e le istanze di ritorno alla natura delle tribù della spiaggia, tra la Shasta perennemente in bikini e quella che si presenta a Doc “con un aspetto che aveva giurato non avrebbe mai avuto!”
Proprio come l’inquadratura fissa di un vicolo stretto tra due case, puntato su un cielo piuttosto stinto che cola sull’oceano di Gordita Beach (Los Angeles), che apre e chiude il film.
Nel mezzo l’indagine di Larry “Doc” Sportello. Un intreccio involuto e allo stesso tempo pacatamente pirotecnico: perché esplode tante volte, in tanti piccoli momenti, eppure procede indolente, con la stessa apatia da cannabis, che caratterizza il protagonista. Il vicolo dell’inquadratura è quello dell’incipit, sia del romanzo, sia del film: “Arrivò dal vicolo e salì i gradini sul retro, come sempre. Doc non la vedeva da più di un anno”. L’adattamento di Anderson, per quanto aderente al testo in modo ossessivo, si concede alcune deviazioni, associando per esempio al personaggio di Sortilège (Joanna Newsom), il ruolo di voce narrante. È lei che recita l’incipit citato e che ci introduce così nella storia; e sarà lei che di tanto in tanto ci terrà per mano, per evitare che ci perdiamo nel delirio che si scatenerà. Non si tratta solo di una voce, ma di un vero e proprio personaggio, con una reale presenza scenica, che però appare anche piuttosto evanescente: quasi come se non fosse davvero là, come se i protagonisti non si accorgessero appunto della sua presenza corporea; Anderson si concede anche un finale diverso e, com’è ovvio, nel film non può entrare tutta l’enorme varietà del romanzo, ma per il resto, siamo di fronte a un approccio, per così dire, “creativamente” didascalico e funziona maledettamente bene.
Ma chi arriva dal vicolo?
Ovviamente l’espediente narrativo principale.
Doc riceve la visita inaspettata – la scambia addirittura per una visione psichedelica – della sua ex, mai dimenticata, Shasta (Katherine Waterston), che gli chiede di occuparsi del presunto complotto per fare internare il suo attuale amante Mickey Wolfmann (Eric Roberts), magnate dell’immobiliare, ordito dalla moglie e dall’amante di quest’ultima. Si tratta del più facile, forse del più scontato motore narrativo: l’amore. Già, perché l’occhio languido di Doc, quando accompagna Shasta alla sua enorme auto e la guarda allontanarsi, non è evidentemente solo l’esito di una giornata ininterrotta di spinelli. Pochi minuti dopo Doc si ritrova in un centro massaggi, dove il servizio di punta sembra essere la “leccata di figa”, riceve una botta in testa e si risveglia disteso a terra, all’aperto, al fianco di un cadavere e circondato dalla polizia, al comando dell’ispettore Christian “Bigfoot” Bjorsen (Josh Brolin), che ovviamente lo arresta con la presunta accusa di omicidio. Giusto ancora il tempo per un brillante (ironicissimo) confronto retorico tra Bigfoot e Doc, al quale si aggiunge l’avvocato di diritto marittimo Sauncho Smilax (Benicio del Toro) e Doc viene finalmente rilasciato, libero di condurre la sua ricerca, di intraprendere il suo personale “viaggio dell’eroe” o sarebbe meglio dire dell’antieroe. D’altra parte quel che conta è appunto il viaggio, il suo muoversi su questo confine nostalgico e malinconico. Sembra apparentemente la pallina di un flipper eppure in un certo qual modo è sempre lui a condurre il gioco. Fluttua con innocenza, ma anche con ferma determinazione in un intrigo dai contorni sfumati, accumulando indizi che sono anche storie nella storia, che convergono, certo, ma allo stesso tempo restano anche impermeabili l’una all’altra.
Quella di un saxofonista (Owen Wilson) tossicodipendente, morto, ma non morto, anzi vivissimo, spia sul libro paga del Governo; quella del clan di motociclisti nazisti che fa da guardia del corpo all’ebreo nazista Wolfmann; quella di una strana clinica di igiene mentale, piuttosto tendente alla setta; quella di un’associazione di dentisti dedita all’evasione fiscale e del dentista (Martin Short), tossico e sessuomane, che la presiede e che morirà ammazzato, forse proprio a causa dei suoi vizi; di una nave, appiccicata all’orizzonte, sede di loschi commerci; di un cattivissimo gangster colluso con la polizia corrotta; di narcotrafficanti; di avvocati dei narcotrafficanti; di padri di figlie perdute e di figli di genitori perduti. La storia dello stesso Bigfoot, nemesi di Doc, spalla comica, amico e nemico del protagonista, aspirante attore, tanto rude nel suo lavoro, quanto terribilmente succube della consorte tra le mura domestiche e così via. E su ogni cosa, proprio come la nube caliginosa di marijuana che avvolge i protagonisti, aleggia la Golden Fang, entità spettrale che è probabilmente tutto o forse niente. Un campionario di situazioni improbabili, costellate da una fauna eccentrica, che fa uso massiccio di droghe e di sesso. Insomma, prendete un Philip Marlowe sotto acido, aggiungete una spruzzata di comicità demenziale alla Zucker-Abrahams-Zucker – avete presente Top Sectet!? – mescolate tutto con un pizzico di Coen, servite insieme a un White Russian preparato da Jeffrey “Drugo” Lebowski, senza tralasciare qualche granello di quel poderoso mix tra situazioni esilaranti e struggente ironia alla David Foster Wallace, metteteci anche qualche tavola del fumetto demenziale The Fabolous Furry Freak Brothers di Gilbert Shelton, apperecchiate il tutto su una tavola da surf , magari come sottofondo musicale scegliete un assolo di sax surf e forse avrete scoperto la formula segreta del vizio intrinseco.
Doc è il profeta nostalgico di coloro che vivono dal lato sbagliato della strada, portavoce del mondo della spiaggia, leader involontario di hippie strafatti, freak, tossici, rocker e mistici, contro i prati verdi e i recinti bianchi del capitalismo trionfante. Si aggira in una Los Angeles luminescente, con i capelli lunghi e i sandali, o meglio senza sandali, con la pianta dei piedi indelebilmente insozzata a futura memoria di un’epoca al tramonto. Il suo è un vagare casuale eppure preciso, come se seguisse, con fede assoluta, le indicazioni di una tavola Ouija. Come quella volta, che alla ricerca disperata di droga, sotto una pioggia salvifica, lui e Shasta, trovarono invece il momento più dolce e romantico di tutta la loro relazione, ormai già in declino. Metafora anche questa, dell’intero film, a sua volta metafora del declino di una generazione, che ormai non ha più casa, neppure sulla spiaggia, neppure sul lato sbagliato della strada.