“La Musica? Probabilmente il primo social network, che sia mai stato inventato”.
Si riparte da dove tutto cominciò 45 anni fa. L’incontro, comincia con il racconto dell’aneddoto legato all’incisione di Signora Lia che venne presentata nello stesso albergo romano. Baglioni, presenta alla stampa come nasce CON VOI attraverso un racconto intimistico e personale:
“Non so se voi avete seguito in questi ultimi mesi, quello che ho inteso fare e se vi è capitato di ascoltare tutto il lavoro che viene riunito appunto in quest’ album. Ho annunciato fin dall’inizio che ad un certo punto gli avvenimenti di questa idea progettuale sarebbero stati raccolti in un prodotto fisico, un disco reale.
Perché vivo una piccola schizofrenia? Anzitutto perché io, sono figlio fortunato – assieme a molti altri colleghi – dell’epopea del disco; il mio primo contratto nasce nel 1967, il primo disco nel 1969 e da allora in poi fino alla fine degli anni settanta quando vi era la grande presa di posizione del pubblico verso il cosiddetto album, con la sensazione che la musica fosse in effetti un social network; probabilmente il primo che sia mai stato inventato.
Perché innanzitutto le persone parlavano di musica, ci si confrontava, si aspettava qualcosa per farsi penetrare dall’emozione dell’ascolto, degli artisti, dei gruppi, della musica che ti interessava.
Secondo aspetto: la riconoscibilità, di coloro che facevano parte di questo social network, perché erano in genere coloro che portavano quei quadrotti dentro le buste, della dimensione del 33 giri e quindi sapevi in grosso che era qualcuno che ascoltava musica. Probabilmente spesso era musica pop, rock, musica popolare; ma anche musica classica o di altre discipline musicali.
Mi sono reso conto che tante cose sono cambiate, tant’è che io negli ultimi dieci anni, non ho fatto più un album interamente d’inediti per quella parte di me che invece andava verso una fase più interpretativa della musica ho fatto raccolte, cantato canzoni di altri, ho ripreso addirittura il mio primo disco di successo Questo piccolo grande amore, l’ho riscritto ed ospitato al suo interno 69 ospiti, in nome forse della ricerca di un gran finale.
Si perché, da un certo punto in po, qualcuno che ha una grande vicenda musicale, non fa altro che studiare e fa le prove per arrivare al giorno in cui dir: signori è finita! Prima che glielo dicono gli altri. Il trucco è questo lasciare il ring non da pugile suonato, ma da qualcuno che riesce se non altro ad essere lo sfidante del campione mondiale.
A un certo punto ho pensato guarda che strano se io vado a rifare il mio primo grande disco di successo allora sarà veramente l’ultima storia. Otto mesi fa, poi, avevo anche per una serie di questioni personali, in qualche modo deciso che questo era appunto il momento senza troppi piagnistei, senza troppe storie, d’altronde il palco è difficile da lasciare, soprattutto accettarlo nel tempo.
Intendevo chiudere, ma ad un certo punto ho pensato che, negli ultimi 2-3 anni avevo scritto tantissima roba, tantissimi appunti, un po’ come facevano gli autori di musica prima che arrivasse la mania di registrare. Scrivere proprio su un pentagramma, con quel curioso sistema alfanumerico che è la scrittura musicale e là dove non avevo il pentagramma già predisposto, lo facevo io. Ci abbiamo messo due o tre mesi, con il mio fido collaboratore Walter Savelli a riscrivere cose messe sul dorso di libri, su tovaglioli di carta e su tutto ciò che passava al momento, perché poi io potessi ricordarmi le cose che mi erano venute in mente, le intuizioni musicali.
La stessa cosa la faccio con gli argomenti dei testi, con certe linee, con giochi di parole e con la possibilità ancora una volta di piegare questa lingua al sistema delle tronche e delle parole sdrucciole.
Di tutto ciò, che poi diventa la dannazione di chi combatte tra due materie così diverse: il musicista ed il paroliere, devono conciliare il diavolo con l’acqua santa, due cose che hanno veramente origine e materia interna molto distanti.
Ed allora ho deciso di percorrere questa storia, di non pensare più all’album come motore centrale di tutto quanto, anche se poi lo prevedevo che sarebbe stato il contenitore, la raccolta di tutto questo lavoro, di questo percorso.
E’ un po’ come fare un salto all’indietro, agli anni 60 dove spesso si usava un prodotto più tascabile, una proposta più piccola, i famosi 45 giri e poi, solo alla fine di un certo periodo, quando si riteneva che il tutto fosse degno di appartenere a qualcosa di più, lo si metteva in uno spazio più grande che fosse in grado di contenere tutto .
Ad un certo punto do deciso di farlo, anche pensando che la contemporaneità poteva essere un elemento adrenalinico interessante per continuare a comporre.
Uno l’ho fatto per combattere la mia mania di gigantismo, ad un certo punto della carriera quando superi i 25-30 anni incominci a magnificarti, si tende un po’ a ricantarsi, a mettere insieme tanta roba. Ho detto se scelgo una cadenza diversa, il fatto che comunque ogni due o tre settimane mi impegno a produrre qualche cosa; non sono obbligato ma faccio un patto con me stesso. Significa non pensare solamente alle cattedrali di musica, ai grandi soffitti, agli affreschi ma ricominciare a vivere qualcosa più nel particolare.
L’altro aspetto era evitare la solitudine del compositore che molto spesso, anzi quasi sempre scrive in assenza del pubblico, scrive molto prima che il pubblico poi possa dare un giudizio positivo, negativo o di mezzo.
Tant’è che la parola incisione che è quella che si usava prima, perché come tutti sapete i dischi si incidevano, si creavano dei solchi, si solcavano, mi sembrò da un certo punto in poi – con una esagerazione un po’ enfatica – che i dischi appartenevano alla stessa categoria delle cose r.i.p. Lasciati così per sempre e nessuno ci poteva più rimettere mano. Questa è l’ansia di gran parte di noi che facciamo questo mestiere, noi vorremmo essere infiniti e l’idea di finire qualcosa è demoralizzante è avvilente. Non vorremmo mai finire, perché tutto quello che viene fuori non è poi così esattamente bello, come abbiamo immaginato. E’ sempre un compromesso, è sempre qualcosa che nella tua mente albergava meglio ed aveva più respiro, più sole, più aria. Il prodotto è veramente un sottoprodotto, nessun artista credo che sia mai felice, a meno che non sia proprio alle prime armi e allora le cose che vengono fuori sono straordinarie.
Ho cercato di mettere in gioco, questa tascabilità e la possibilità di non avere un percorso ben delineato; di sorprendermi nel sapere che l’itinerario non era un viaggio organizzato, di volta in volta era davvero come una carovana senza una destinazione precisa e senza che nessun pezzo fosse terminato prima di sottoporlo al pubblico e solo dopo si passava ad un altro capitolo.
Queste dodici tracce che poi sono quindici dentro l’album perché ci sono dodici canzoni e tre brani strumentali corali…c’è un prologo, un interludio ed una coda.
Questi dodici piccoli lavori, sono stati concepiti davvero come se fossero degli album separati, ognuno di questi ha avuto una sua copertina, ha avuto una sua storia di presentazione, di promozione.
Siamo partiti dall’idea che tutto l’album ha un suono di fondo, che è una specie di suono del mondo il suono delle cose, come se fosse registrato all’aperto, insomma suoni di vento, di aria, banalmente ma sono tutti ricreati da un punto di vista digitale e di campionamenti. Richiede una voglia di ascolto, chi lo ascolterà attentamente e magari in cuffia si accorgerà molto di questa tridimensionalità della cura e della registrazione, della ricerca di qualcosa che fosse in movimento. Ognuno di questi brani è in fondo una piccola suite, anche nella durata siamo quasi sempre sui sei minuti, sei minuti e mezzo; diciamo che non è un lavoro che va incontro al sistema odierno e corrente, che è quello dello: spicciati c’è qualcosa d’altro da fare.
L’idea che in questi brani ci fossero tanti stati d’animo anche dal punto di vista degli arrangiamenti, anche nella stessa forma canzone più tradizionale, le canzoni si assomigliano poco, anche se in molti arrangiamenti ci sono delle citazioni volute di mondi musicali degli anni 60, 70, 80, 90. Non ci sono gli ultimi anni, perché personalmente non ho una conoscenza precisa degli ultimi 10 anni della musica, ma mi sembra che non abbia prodotto cose meritevoli e memorabili comprese chiaramente quelle fatte dal sottoscritto, ma insomma che ci sia un autunno musicale generale.
Concludendo, direi di essere grosso modo alla metà di questo lavoro compositivo, dico grosso modo perché non so di preciso ma penso di riprenderlo dopo la fine dell’anno.
Non so se la tecnica sarà la stessa, il tipo di proposta, il tipo di calendario.
Probabilmente, quindi potrebbero cambiare alcuni aspetti.
Domani ci sarà l’ultimo brano di questa prima parte, Una storia vera, che chiude la raccolta dei 12 pezzi e un po’ come succede spesso nei lavori, l’ultimo brano sembra essere il primo dei lavori che seguiranno. Una sorta di passaggio di testimone, è una canzone un po’ diversa da tutte le altre con una decisa identità pop.
Qualcuno ieri mi ha detto ma quant’è che riscriverai le canzoni da falò rimproverandomi un po’ la difficoltà e la complessità dei pezzi; la cosa curiosa è che quando io scrivevo le canzoni da falò, mi rimproveravano di non scrivere le canzoni più complesse.
C’è un’altra cosa che volevo raccontarvi, la difficoltà di parlarne, anche se ne ho parlato tanto, ma quando si finisce un disco come questo si è letteralmente senza parole, perché per cinque-sei mesi non hai fatto altro, dalla mattina alla sera, pure se leggi le avvertenze di un medicinale, di capire se quella parola ti potrà servire a qualcosa, se ha la metrica giusta. Si diventa pazzi, maniaci, ossessivi, con delle forme veramente da curare e la fine se ne esce quasi sempre bastonati”.
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