Nell’aprile del 1983 usciva “Un sabato italiano”, un album che ha fatto la storia della musica italiana, composto da brani che sembrano non invecchiare mai. Nel trentennale dell’uscita di questo album, Sergio Caputo, ha messo in atto una serie di eventi celebrativi.
“Un sabato italiano” parla d’amore, di amicizia e di inquietudine. Com’è rivedere queste storie a distanza di trent’anni?
Ma presso a poco uguale, perché comunque sono tre elementi che non cambiano mai, sono momenti della vita di tutti noi che o si verificano una sola volta o altre volte si ripetono di più. Quindi diciamo che l’essenza del libro, l’essenza dell’album non è cambiata come attualità proprio perché parlo di elementi e di sentimenti comuni a livello emozionale e di emozione umana.
Oltre all’album rivisto in chiave più jazz hai aggiunto due brani inediti, ancora una storia d’amore ed un tuffo nel passato.
Sono due brani nuovi, scritti di recente, che sentivo di dover dare al pubblico sia quello vecchio che quello nuovo rispetto ad un album che aveva delle canzoni che erano già conosciute. Due brani che stessero degnamente accanto a quelli che tutti conoscono, sono due standard, due classici. Uno un pochino più innovativo come “C’est moi l’amour” dove c’è proprio il passaggio dall’elettronica alla musica strumentale, all’interno del brano il cambiamento avviene più o meno a metà e “I love the sky in september” è uno standard di più basso respiro jazzistico dove mi sono divertito a parlare delle cose comuni, delle cose semplici e quindi la voglia di apprezzare un bel cielo azzurro o una storia d’amore senza problemi una volta tanto, che ci renda la vita migliore invece di complicarcela.
Come hai appena citato in “C’est moi l’amour” anche nella rivisitazione dell’album hai preferito ai sintetizzatori la musica vecchia maniera, quella in studio. E’ stata una scelta voluta?
Diciamo perché l’album degli anni ottanta non lo potevo più toccare, era troppo ancorato agli anni ottanta dal punto di vista del sound, mentre le canzoni hanno continuato a vivere di vita propria e mi hanno accompagnato per trent’anni. In occasione, appunto, del trentennale dal punto di vista del sound mi sono posto il problema di cosa fare e la prima cosa da fare era rifare l’album in modo più classico, in questo caso con dei brani di natura jazzistica, con sviluppo armonico jazz. La cosa migliore da fare era proprio riportarli più vicini alla loro natura e quindi li ho ri-registrati e mi sono divertito a farlo in modo più tradizionale, io con tutta la band in studio suonando il brano fino a che non veniva bene e devo dire che in due giorni siamo riusciti a fare tutta la parte delle basi come si faceva una volta. Poi ho preso il mio tempo, per cantarlo e per mixarlo, con tranquillità però diciamo che il lavoro di base è stato fatto come si faceva nei dischi degli anni sessanta-settanta.
Il progetto oltre al CD prevede anche un tour ed un libro. Il libro in particolare va ad arricchire il CD nel senso che svela aneddoti e retroscena che magari non sono entrati nelle canzoni. Ci racconti l’idea e se per te è più facile scrivere il testo di una canzone o quello di un libro?
Diciamo che in linea di massima preferisco scrivere prosa, perché non vincolate dalla metrica, dalle rime e dalla struttura di una canzone che oltretutto ha anche uno spazio molto ristretto quindi riesci a dire delle cose però non le puoi sviluppare più di tanto. Nella prosa questo non succede, hai tutto lo spazio che vuoi e malgrado io mi preoccupi molto, quanto scrivo anche in prosa, di conservare il ritmo, quindi non amo arenarmi, impantanarmi in considerazioni che sono talvolta troppo oziose cerco appunto di mantenere il ritmo che poi è una cosa che mi deriva anche dalla musica o anche dal fatto di essere un lettore io stesso. Riconosco le parti che si ripetono e tendo ad eliminarle. Il libro in realtà è una biografia che si legge come un romanzo, le storie sono tutte storie vere. Sono le storie, i veri personaggi, i veri luoghi, i veri amori, tutto ciò che mi circondava quando stavo vivendo questo periodo che ha poi dato origine all’album “Un sabato italiano”. Quindi non è un semplice libro dove vengono spiegate le canzoni, alcune canzoni le vediamo nascere, altre no ma si deducono dalle storie che racconto.
Videoclip “I love the sky in september”
Per diversi anni sei vissuto negli Stati Uniti, in una realtà sostanzialmente diversa e con altri spunti musicali. Come hai trovato l’Italia al tuo rientro?
Uguale a come l’avevo lasciata, con i suoi vizi e le sue virtù. Un’Italia che fa fatica ad entrare nell’era moderna e nel nuovo millennio, ma lo si poteva già intravedere negli anni novanta però è diventato ancora più evidente quando molti altri paesi intorno a noi hanno fatto questo passaggio e noi ancora aspettiamo, purtroppo.
Resterai in Italia?
Chi lo sa? Le mie radici sono più culturali che non fisiche. Non ho mai pensato che una persona debba restare dove nasce per tutta la vita, come se fosse un albero. Abbiamo avuto questo dono, di poterci spostare da una parte all’altra del pianeta e cerco di sfruttarlo. Adesso ho due bambini piccoli, quindi vedremo dove cresceranno o dove vorranno crescere anche loro. Però non escludo niente, il mondo è molto grande ed io ne ho visto una minima parte, solo Italia e Stati Uniti.
Parlando invece di programmi futuri?
Sto lavorando a dei nuovi brani inediti che saranno sulla scia dei due brani che ho inserito nell’album “Un sabato italiano 30”, saranno meno vincolati alle strutture tradizionali ma ci sarà sicuramente il jazz dentro perché quella è un po’ la mia anima. Ho ripreso a dipingere, che è una cosa che facevo fin da quando avevo tre anni e quindi c’è anche una mostra in un possibile futuro. Ma semplicemente perché è una cosa che facevo, che era dentro di me da prima della musica, devo dire che dipingere mi da più serenità di qualunque altra occupazione.
Il tour avrà anche una parte estiva?
Assolutamente si e non necessariamente nella forma che ha avuto “Un sabato italiano show” che era un progetto mirato a presentare questo lavoro. Quindi saremo in giro a volte con questa formazione, altre volte in quintetto, quartetto, trio e non escludo certe volte anche da solo unplugged che è una situazione che a me piace molto, perché riesco veramente a spaziare, essere libero, senza dover strizzare l’occhio, fare segnali agli amici della band per far capire che voglio fare un altro pezzo rispetto a quello che hanno in scaletta. Per me fare lo show da solo è la libertà assoluta di poter comunicare con il pubblico e raccogliere le richieste del pubblico a sorpresa senza dover poi dover dipendere dalla band che viaggia sul binario delle strutture.
Videoclip “C’est moi l’amour”
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